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Migrazioni e forme di tutela

La protezione internazionale

Negli ultimi anni sempre più persone sono costrette a lasciare il luogo dove sono nate e cresciute, il proprio paese di origine, per gravi violazioni dei diritti umani, violenze, conflitti e condizioni di vita poco dignitose. In simili situazioni, le persone non sono o non si sentono sicure nel proprio paese che non è in grado o non vuole garantire loro una adeguata tutela e, una volta giunti in un nuovo paese, chiedono a quest’ultimo di proteggerli. La protezione internazionale è, infatti, la protezione che lo Stato di accoglienza garantisce alle persone di altri paesi.

Ottenere la protezione internazionale in Unione europea significa essere riconosciuto rifugiato (in caso di persecuzioni per motivi etnici, religiosi, politici, di nazionalità o di appartenenza a un gruppo sociale) o titolare di protezione sussidiaria (nei casi di guerre e conflitti armati, di rischio di torture o di esecuzione o condanna alla pena di morte). Ottenere la protezione internazionale significa, quindi, sottrarre queste persone a violenze, violazioni dei diritti umani, varie forme di persecuzioni, torture e guerre.

L’arrivo a un tale riconoscimento, sia nel caso dello status di rifugiato che della protezione sussidiaria, prevede però un determinato percorso burocratico che la persona dovrà seguire e che, a seconda dei paesi e dei casi, può durare pochi mesi o qualche anno. La persona che vuole chiedere la protezione internazionale dovrà, infatti, presentare una specifica domanda, a seguito della quale assumerà la qualifica di richiedente asilo e che manterrà finché non si sarà presa una decisione.

Un aspetto fondamentale per la vita e la salute del/la richiedente asilo è che, già da questi primi momenti, ha il diritto di essere accolto in appositi centri e strutture. Le condizioni di accoglienza, che può essere garantita per tutta la durata della procedura e per un breve periodo dopo l’esito positivo, possono includere alloggio, vitto e vestiario, forniti in natura o in forma di buoni o sussidi economici, o possono essere rappresentate anche da una combinazioni di queste possibilità. L’importante è che i centri di accoglienza assicurino un’adeguata qualità di vita tutelandone anche la salute fisica e mentale.

I centri di accoglienza sono molto importanti per i/le richiedenti asilo sotto vari punti di vista. Oltre a garantire la possibilità di un alloggio, rappresentano anche un primo luogo di socializzazione in un paese in cui, nella maggior parte dei casi, non si parla e comprende la lingua e dove si è giunti da soli, senza nessun legame presente. Sono luoghi in cui possono emergere rilevanti e ulteriori vulnerabilità delle persone (aver subito torture e maltrattamenti, per esempio) che necessitano di un supporto sanitario e psicologico. Sono i luoghi in cui possono iniziare a seguire corsi di lingua per poter, quanto prima, avviare un percorso di integrazione anche da questo punto di vista.

Naturalmente, seppure l’Unione europea chiede agli Stati di garantire standard minimi di condizioni e servizi di accoglienza, la situazione varia da uno Stato membro all’altro. Molte volte, infatti, la concreta possibilità di un effettivo percorso di integrazione del/la richiedente asilo dipende dalle capacità e modalità di accoglienza dei singoli Stati, dei servizi che vengono offerti sul territorio. Una persona accolta in una piccola località, distante dai grandi centri urbani e con questi poco collegata, per esempio, avrà meno opportunità di socializzazione, accesso a servizi e a lavoro, rispetto ad un’altra persona accolta in una città.

Il momento più importante per il/la richiedente asilo è sicuramente quello del colloquio con un organo predisposto ad esaminare la domanda, al quale verrà sottoposto nella maggior parte dei casi. Durante questo colloquio, la persona racconterà la propria storia personale e migratoria, le motivazioni che a volte possono riguardare anche la sfera più intima, i timori e i rischi che lo hanno costretto a lasciare il proprio paese. È un momento molto delicato ed emotivamente forte per il/la richiedente asilo, sia perché dovrà raccontare, spesso non direttamente ma attraverso un interprete, aspetti delicati e dolorosi della propria vita a una persona appena conosciuta, sia perché, nella maggior parte dei casi, è da questo colloquio che potrà dipendere l’esito positivo della domanda di protezione internazionale.

Oltre alle forme di protezione internazionale esaminate, gli Stati dell’Unione europea, possono prevedere anche ulteriori forme di tutela umanitaria per altre e diverse situazioni e condizioni personali o del paese di origine che rimangono escluse. La Germania, per esempio, prevede il permesso di soggiorno per “divieto di espulsione” (nationales Abschiebeverbot), la Spagna il permesso di soggiorno per “ragioni umanitarie” (autorización por razones humanitarias), l’Italia la protezione “speciale”.

Da non confondere con la protezione internazionale è la protezione temporanea, prevista dall’Unione europea dal 2001 (Direttiva 2001/55/CE del Consiglio del 20 luglio 2001). La protezione temporanea è uno strumento che l’Unione europea decide di attivare “nei casi di afflusso massiccio o di imminente afflusso massiccio di sfollati provenienti da paesi terzi che non possono rientrare nel loro paese d'origine” e che garantisce “una tutela immediata e temporanea alle persone sfollate”. L’obiettivo della protezione temporanea, dunque, è quella di fornire il prima possibile una forma di tutela a persone che scappano in grandi numeri da un paese (senza quindi dover avviare una domanda di protezione internazionale e aspettarne l’esito) ma anche, quale strumento europeo, di consentire una immediata accoglienza nei vari paesi dell’Unione.

Questa forma di protezione è stata attuata dall’Unione europea per la prima volta a marzo 2022 per offrire una immediata e adeguata tutela ai profughi provenienti dall’Ucraina, paese in guerra, attaccato militarmente dalla Russia. L’opportuna e immediata decisione di riconoscere tale protezione e strumento di tutela agli ucraini evidenzia, purtroppo, anche una certa discrezionalità e distinzione delle politiche dell’Unione europea nel trattamento che viene riservato a quelle persone che scappano da conflitti o gravi violazioni dei diritti umani in altri Paesi e in altre aree del mondo. La protezione temporanea, infatti, oltre che nei casi di guerre e conflitti armati, può essere riconosciuta anche a fronte di un alto numero di persone costrette a scappare dal proprio Paese perché “soggette a rischio grave di violazioni sistematiche o generalizzate dei diritti umani o siano state vittime di siffatte violazioni” (art. 2, lett. c della Direttiva). La storia recente, almeno dal 2001 ad oggi, ha purtroppo assistito a molte situazioni di crisi che hanno costretto tante persone a fuggire dal proprio Paese: le guerre in Afghanistan e Iraq, quella in Siria e nello Yemen, le violenze indiscriminate durante e dopo il crollo del regime di Gheddafi in Libia nel 2011, le recenti e gravi compromissioni dei diritti umani in Afghanistan, solo per ricordarne alcune. In tutti questi casi, l’Unione Europea avrebbe avuto la possibilità di utilizzare lo strumento della protezione temporanea, cosa che purtroppo non è avvenuta. La risposta dell’Unione europea a fronte delle crisi richiamate è stata quella di incrementare le proprie politiche restrittive e di chiusura. Un simile atteggiamento è stato perpetrato anche da molti Stati membri, come ad esempio la Grecia che a fronte dell’inasprimento delle violazioni dei diritti umani in Afghanistan dall’agosto 2021, ha costruito un muro di 40 km al confine con la Turchia.

Migranti LGBTI+

Ad oggi, i Paesi in cui la comunità LGBTI è criminalizzata sono circa 70 dove essere LGBTI comporta pene che vanno dalla reclusione alla pena di morte. La previsione di una simile criminalizzazione, inoltre, favorisce, incrementa e legittima il clima di odio, intolleranza e violenza nei confronti delle persone LGBTI da parte della società e dei familiari stessi.

Questo numero sale se si considerano gli Stati in cui pur non essendoci criminalizzazione, vige un clima di forte omo-bi-transfobia, oppure vengono utilizzate altri reati per colpire comunque le personeLGBTI.

Anche nei Paesi in cui è assente un reato specifico, infatti, le violenze e le persecuzioni nei confronti delle persone lgbti da parte della società sono quotidiane e costanti, nel silenzio o con la complicità dello Stato. In Paesi come l’Egitto, ad esempio, pur non essendo in vigore alcuna norma che criminalizzi esplicitamente i comportamenti sessuali omosessuali, le persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender vengono sistematicamente perseguitate, incarcerate, torturate.

Pertanto, come è facile intuire, al fine di vivere una vita dignitosa e libera, molte persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender emigrano da alcuni Paesi verso altri più sicuri, per chiedere protezione internazionale e, quindi, il riconoscimento dello status di rifugiato, in qualità di persona che subisce persecuzioni per la sua appartenenza a un “determinato gruppo sociale”.

Nonostante la legge li consideri potenziali destinatari di protezione internazionale, per i richiedenti asilo LGBTI le cose non sono così semplici. I primi problemi sorgono proprio nell’incontro con le Commissioni territoriali incaricate di valutare le domande, spesso non attrezzate per affrontare quelli che vengono definiti SOGI (Sexual Orientation and Gender Identity). Altre volte, invece, a causa della non conoscenza della normativa e della realtà del Paese di accoglienza, o per il timore che le dichiarazioni in merito al proprio orientamento sessuale possano venire a conoscenza di altre persone, i richiedenti asilo hanno difficoltà ad affrontare il motivo per il quale sono stati costretti a scappare dal proprio Paese.

A queste difficoltà, si aggiunge, molte volte, quella di essere accolto in un centro dove la maggior parte delle altre persone accolte, provengono dagli stessi Paesi, dalla stessa cultura del richiedente asilo LGBTI. Questo ambiente può creare nel richiedente asilo, chiusura e malessere quotidiano.

Migrazioni ambientali e climatiche

Negli ultimi decenni i cambiamenti ambientali e climatici sono diventati un problema sempre più urgente da risolvere o, quantomeno, cercare di ridurne drasticamente gli effetti. I cambiamenti ambientali e climatici, che siano la conseguenza delle attività dell’uomo o siano generati da cause naturali, possono, per semplicità, essere suddivisi in due categorie:

1. a rapida insorgenza: sono quei fenomeni, quei disastri che si presentano all’improvviso o comunque non possono essere facilmente previsti in anticipo, come terremoti, cicloni, frane, inondazioni;

2. a lenta insorgenza: sono quei fenomeni che rappresentano il lento risultato del continuo peggiorare del sistema climatico globale. Si verificano in forma di siccità, desertificazione, carestia e inquinamento.

Che siano dell’una o dell’altra categoria, i disastri ambientali e climatici hanno gravi conseguenze sulla vita delle persone e sui loro diritti. Creano una violazione a catena dei diritti umani fondamentali, come quello all’acqua, al cibo, all’alloggio, alla salute, all’integrità fisica. In altre parole, vanno a compromettere il diritto di ogni persona ad avere una vita dignitosa.

Sebbene i paesi maggiormente colpiti ora o nell’immediato futuro sono anche i meno responsabili delle loro cause, difronte all’ingiustizia climatica e ambientale molte volte l’unica soluzione possibile, l’unica alternativa diventa quella di abbandonare i propri luoghi di origine e di migrare. Secondo i dati forniti dal Global Trends – Forced displacement di UNHCR, nel 2020 circa 82,4 milioni di persone sono state costrette a migrare.

Circa la metà di questo numero, 40 milioni e mezzo sono sfollati interni: persone che sono state costrette a lasciare il proprio luogo di origine, che si sono spostate ma sono rimaste all’interno dello stesso paese. In merito alle cause degli spostamenti degli sfollati interni, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre (IDMC), 30 milioni e 700 mila persone sono state obbligate a fuggire a causa di disastri ambientali, mentre 9 milioni e 800 mila persone a causa di violenze e conflitti. Questi dati, però, non sono precisi ed esaustivi ma parziali in quanto, ad esempio, non sempre fanno anche riferimento alle persone che sono costrette a spostarsi per cambiamenti e disastri a lenta insorgenza.

Altre volte, invece, le persone decidono o sono costrette a lasciare, temporaneamente o permanentemente, il proprio paese di origine e stabilirsi in un nuovo paese sia per gli effetti diretti di disastri ambientali e climatici, a rapida o a lenta insorgenza, sia per gli effetti indiretti degli stessi. Nel corso degli anni, infatti, i cambiamenti climatici e ambientali hanno rappresentato la causa o la concausa di conflitti, violenze, abusi e discriminazioni. Secondo l’IDMC, ad esempio, il 95% dei conflitti verificatisi nel 2020, sono avvenuti in paesi ad alta o altissima precarietà ambientale e climatica. Questi conflitti possono essere interni, etnici o religiosi, ma anche manifestarsi in vere e proprie guerre.

Per fare un esempio, si pensi alla guerra in Siria. Il paese, tra il 2007 e il 2010 è stato colpito da una feroce siccità che ha fatto aumentare il costo del grano, del pane e dei generi alimentari. Questo innalzamento dei prezzi ha portato alle prime manifestazioni, proteste e rivolte per le strade e le piazze da parte della popolazione. In altri casi i conflitti assumono la forma di scontri etnici, religiosi, o di land grabbing. A seguito degli spostamenti per cause ambientali e climatiche, gli sfollati interni si ritrovano in territori già abitati da altre popolazioni le quali, a loro volta, si trovano a condividere terreni e risorse con i primi. Questo può comportare uno scontro tra etnie diverse o popolazioni appartenenti a religioni o minoranze religiose diverse, ma anche a violenze per l’accaparramento di risorse e terreni. Il fenomeno del land grabbing, purtroppo, si verifica in varie parti del mondo, nell’Africa subsahariana, nel sud-est asiatico, nei paesi dell’America latina

Altre volte i cambiamenti ambientali e climatici sono la causa di altre forme di violenze perpetrate sul territorio. A causa dell’inquinamento prodotto dalle fuoriuscite di petrolio, l’area del Delta del Niger è stata gravemente compromessa. La presenza delle società petrolifere estere nel paese, il progressivo inquinamento dell’area coinvolta dalle estrazioni, la povertà della popolazione locale hanno contribuito alla nascita, nel 2016 di un gruppo armato autodefinitosi Vendicatori del Delta del Niger. Tale gruppo ha iniziato ad attaccare, sabotare e dare alle fiamme molti oleodotti, azioni alle quali lo Stato ha risposto con l’esercito, generando su entrambi i lati violenze sul territorio con effetti e conseguenze gravi per le popolazioni locali.

I cambiamenti ambientali e climatici, inoltre, hanno effetti e conseguenze maggiori e sproporzionate su alcune categorie di persone, come minori e donne. I minori, secondo i dati di UNHCR nel 2020 rappresentavano il 42% delle 82,4 milioni di persone che sono state costrette a migrare. I minori a fronte di cambiamenti e/o disastri ambientali e climatici hanno molte più probabilità di essere fisicamente colpiti, perché anatomicamente e fisiologicamente più vulnerabili degli adulti, con un rischio estremamente maggiore di malnutrizione, infezioni e malattie provocate dall’acqua. Inoltre, in situazioni di stress ambientale e climatico, i minori sono maggiormente a rischio di violenza, matrimoni precoci e forzati, lavoro minorile, accattonaggio, prostituzione e adesione a milizie.

Per quanto riguarda le donne, invece, secondo il Parlamento europeo (Risoluzione del 16.01.2018), queste sono particolarmente vulnerabili ai cambiamenti climatici e ambientali e risentono dei loro effetti in maniera sproporzionata a causa dei loro ruoli sociali nelle comunità di molte parti del mondo. In Africa, ad esempio, il 70% delle donne lavora nel settore agricolo, producendo oltre il 90% dei prodotti alimentari di base. Proprio per questi motivi, secondo il Parlamento europeo, gli impatti dei cambiamenti climatici acuiscono le disparità di genere in relazione alla discriminazione, all’accesso a servizi, al rischio di subire violenze e sfruttamento anche sessuale, al rischio di tratta di esseri umani.

Nonostante una simile situazione generale, sia in termini di cambiamento ambientale e climatico che degli effetti che ne derivano, a livello internazionale ed europeo, le persone che sono costrette o decidono di migrare per questi motivi, sono privi di un qualsiasi riconoscimento ufficiale. Innanzitutto, manca addirittura una definizione giuridica (come può essere quella di rifugiato) ufficialmente riconosciuta per i migranti ambientali e climatici. Da questo punto di vista, infatti, si crea molta confusione e vengono spesso utilizzati termini non sempre corretti e includenti delle varie complessità e caratterizzazioni, come profugo ambientale, eco-profugo, rifugiato climatico, sfollato ambientale, migrante forzato e altri ancora.

Manca anche una tutela giuridica come quella rappresentata, ad esempio, dalla protezione internazionale.

Da una parte, infatti, gli strumenti della Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951, così come l’europea protezione sussidiaria, non prevedono motivi ambientali e climatici e, dall’altra parte non sono stati creati, a livello internazionale ed europeo, strumenti di tutela e protezione specifici.

Migrazioni e forme di tutela

PROPOSTA DI ATTIVITÀ:

Quale accoglienza garantire?

Obiettivi: Comprendere, analizzare e riflettere sullo stato di bisogno e sulle esigenze di accoglienza di persone in fuga da guerre, persecuzioni o altre gravi violazioni dei diritti umani.

Durata: 2 ore

Materiale: penne, fogli di carta

Svolgimento:

Suddivisione in gruppi (15 min.): studenti e studentesse verranno suddivisi in 2 gruppi:

(A) Istituzioni; (B) persone in fuga.

Ai due gruppi verranno affidati i seguenti ruoli e compiti: Il gruppo (A) dovrà individuare ed elencare le caratteristiche e la tipologia dei servizi di accoglienza che come istituzioni statali garantiscono per accogliere i profughi appena arrivati sul proprio territorio, tenendo in considerazione fattori quali: i luoghi dei centri di accoglienza (es. città, piccoli paesi…), vitto, alloggio, l’età e i minori, il genere, l’orientamento sessuale/identità di genere, eventuali vulnerabilità ed esigenze particolari, la durata dell’accoglienza…

Il gruppo (B) dovrà, invece, impersonificarsi in persone che sono state costrette a scappare dai propri Paesi per guerre, persecuzioni personali, gravi violazioni dei diritti umani, che hanno affrontato un lungo e pericoloso viaggio, che, magari, durante tale percorso hanno subito violenze, abusi o torture, e che arrivano per la prima volta nel Paese di accoglienza. Conseguentemente, il gruppo dovrà cercare di individuare i propri bisogni e necessità di accoglienza, in considerazione, soprattutto, del diverso vissuto migratorio e situazione personale, in base all’età e alla minore età, al genere, all’orientamento sessuale/identità di genere, eventuale nucleo familiare, disabilità e altre vulnerabilità anche sanitarie;

Lavoro dei due gruppi (45 minuti): i due gruppi lavoreranno separatamente ai compiti assegnati in base al proprio ruolo;

In plenaria (60 minuti): ciascun gruppo esporrà all’altro gruppo i punti, i servizi, le esigenze e i bisogni individuati. Al termine si confronteranno su quanto esposto e su eventuali punti mancanti in un gruppo rispetto all’altro e, insieme, elaboreranno un piano di accoglienza comune che tenga conto delle diverse casistiche di persone.

PROPOSTA DI ATTIVITÀ:

Tu cosa faresti?

Obiettivi: Riconoscere e analizzare gli effetti dei cambiamenti climatici e ambientali e il loro impatto sui diritti delle persone; Riflettere sulle risposte e alternative delle persone colpite da disastri ambientali e climatici.

Durata: 2 ore

Materiale: penne, biglietti e fogli di carta

Svolgimento: In plenaria (15 min.): studenti e studentesse dovranno individuare gli effetti dei cambiamenti ambientali e climatici. In particolare dovranno cercare di elencare sia effetti e disastri a rapida insorgenza (es.: alluvioni, terremoti…), sia a lenta insorgenza (es.: desertificazione, siccità, inquinamento…). Ogni fenomeno/disastro individuato verrà scritto su un biglietto di carta; In gruppi (1 ora): Studenti e studentesse verranno suddivisi in gruppi. I gruppi, per ogni disastro individuato, dovrà discutere sugli effetti che questo può avere sulla vita quotidiana, sulla sicurezza e il benessere delle persone, in particolare: (A) su una donna, un uomo, una persona lgbti, un minore di un Paese povero; (B) su una donna, un uomo, una persona lgbti, un minore di un Paese ricco.

Terminata questa attività, per ogni singola categoria di disastro, di persona e paese ricco o povero, discutere e indicare le soluzioni che adotterebbero per il proprio benessere e sopravvivenza (es.: trasferimento in altra città o regione del Paese, trasferimento all’estero, richiesta/accesso ad aiuti economici dello Stato…);

In plenaria (45 min.): discussione, confronto tra i vari gruppi e riflessione su quanto emerso, in merito: (A) agli eventuali diversi effetti sulle singole persone, in base all’età e al genere o identità di genere, e in base alla provenienza da un Paese ricco o povero; (B) alle soluzioni individuate nei singoli casi.

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